Riflessioni sul Perdono, sulla Dignità e sulla Riconciliazione

Riccardo Di Segni

Il perdono è parte di un processo di ricostruzione di un rapporto alterato, che riguarda due parti, chi offende e chi è offeso. Offesi possono essere gli esseri umani, ma non solo loro, possono essere offesi gli animali, i vegetali, la natura; in una prospettiva religiosa il divino da solo o Lui insieme a uomini e natura. Di solito chi offende è l’uomo, ma in una prospettiva ebraica persino l’ordine divino può offendere e meritare perdono. Chi ha offeso deve prendere atto che l’azione da lui commessa è scorretta, confessarla come tale a sé stesso e discretamente davanti a D., e impegnarsi a non farla più. E’ ciò che si definisce teshuvà, letteralmente il “ritorno”, recupero di un cammino retto dopo aver deviato. Dopo questi atti chi ha offeso deve riconciliarsi con l’offeso, chiedendogli il perdono. A sua volta l’offeso deve concedergli il perdono; può rifiutarlo per due volte, alla terza deve cedere; se non lo fa chi ha offeso non è più tenuto a chiedere scusa. Se l’offesa riguarda la natura, non c’è chi può perdonarla.

Il perdono è una riparazione morale dell’identità, è l’acqua che cancella la macchia della colpa e che spegne il fuoco del rancore. Se è unilaterale e gratuito, nel senso che chi ha offeso non fa nulla per ottenere il perdono, questo spegne il fuoco del rancore ma non toglie la macchia.

Il perdono, come processo morale, non elimina la necessità della sanzione, che deve servire a riparare il danno procurato, a creare un deterrente nella società e anche ad aiutare il colpevole a riflettere sul male compiuto.
Il perdono non può essere delegato. Solo chi è stato offeso può esercitare questo diritto-dovere. Un genitore cui è stato ucciso un figlio può perdonare il dolore arrecato al genitore, ma non l’omicidio che riguarda un altro individuo. Il soggetto che chiede perdono deve essere il responsabile, non si chiede perdono per delega. Il discorso si complica se c’è una colpa collettiva che riguarda una società o un’istituzione. Se i suoi membri sono cambiati, la richiesta di perdono non cancella la macchia passata, ma ha il valore positivo di stabilire le basi per un nuovo rapporto, un impegno per il futuro.
Il perdono è essenziale per la sopravvivenza del mondo. L’errore è parte della natura umana e se vi dovesse esistere solo giustizia non vi sarebbe sopravvivenza per gli esseri umani. All’inizio della Genesi vi sono due racconti della creazione, e il Creatore vi compare con due nomi diversi; prima come Eloqim, poi come Hashem-Eloqim. I rabbini così spiegano questa stranezza: il primo nome è quello della giustizia. D. aveva progettato un mondo basato sulla giustizia; vide che non poteva resistere, e allora accostò al principio della giustizia quello della misericordia, rappresentato dal nome Hashem. Con la sola giustizia non si sopravvive, ma neanche con il perdono da solo; le due cose devono andare insieme.

Il perdono troppo spesso è agitato come misura reale della bontà politica. Ma come tale si presta ad abusi e falsificazioni. Se non fai la pace è perché non sei capace a perdonare. Se non sei capace a perdonare è perché sei naturalmente e culturalmente cattivo. Prendi esempio da me che sono sempre disponibile a perdonare. Quante volte in televisione vediamo dei giornalisti imbecilli che chiedono a vittime o a familiari di vittime di efferati delitti se sono disposti a perdonare. Suggerirei alle vittime la risposta: perdoniamo tutti tranne i giornalisti che fanno queste domande. E’ la retorica del perdono, del perdono richiesto sempre agli altri, della società che vuole fare a meno della giustizia, che è requisito, compagna indissociabile del perdono. La vera pace tra esseri umani singoli o tra collettività, istituzioni, stati, è un processo graduale, che richiede sospensione delle ostilità, riparazione del torto, accordi di buon vicinato, garanzie di non aggressione, stabilimento di comunicazioni e riconoscimento dell’altrui umanità. Da questo può scaturire la convinzione di aver sbagliato prima, e la volontà di non continuare a sbagliare dopo. E’ la consapevolezza dell’errore procurato che fa breccia nel cuore dell’offeso. Ci vuole uno sforzo eroico da entrambe le parti; un antico detto rabbinico insegna: “chi è il vero eroe? Colui che fa del suo nemico il suo amico”. Ma il nemico qualche sforzo lo deve fare anche lui. La retorica del perdono è quella che mette sullo stesso piano penitenti e impenitenti, criminali recidivi (singoli, o ideologie, o stati) insieme a colpevoli che però hanno capito che bisogna smettere e cambiare. E non sono la stessa cosa. Anche le vittime hanno i loro diritti, che vanno rispettati.
Oggi si passa senza alcun controllo per quella che fu la frontiera tra Germania e Francia, una frontiera che ha visto nel secolo scorso milioni di morti in guerre che ora appaiono senza senso. Appunto, oggi nessuno o quasi si sognerebbe di rialzare le barriere e ricominciare a sparare. In tutto questo è stato necessario il perdono? O piuttosto è stata decisiva la feroce sanzione contro la feroce aggressione, la consapevolezza della follia delle ideologie, il prezzo enorme pagato? Il perdono, se c’è stato, è venuto dopo; ma è la coscienza maturata sull’assurdità del conflitto che ne ha impedito il riproporsi.

 

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