Riflessioni sul Perdono, sulla Dignità e sulla Riconciliazione
John Baptist Onama
1. I negoziati di pace, generalmente, sono incentrati sulle dimensioni politica ed economica. Quale è la Sua percezione della necessità di toccare aspetti più profondi e genuini della riconciliazione e come si può ottenere questo?
Innanzitutto, occorrerebbe riconoscere che la riconciliazione è essa stessa frutto di un cammino che può essere più o meno lungo a seconda delle circostanze. In questa ottica anche le dimensioni politica ed economica rappresentano dei “mattoni” indispensabili per la ricostruzione dell’edificio della pace in quanto tali fattori aiutano a restituire rispettivamente un minimo di dignità e di giustizia agli individui, ai gruppi e alle comunità che sono stati soggetti a violazioni e di violenze. Ciò nonostante, e a prescindere delle sue formulazioni simboliche e ufficiali per quanto importanti esse siano, i processi di riconciliazione racchiudono una serie di caratteristiche che affondano le loro radici nella dimensione intima e spirituale della persona umana. Innanzitutto la via verso la riconciliazione nasce dalla voglia di sperimentare una speranza autentica, che significa il desiderio di rinascere insieme, di ricominciare insieme, di ricostruire insieme e di riprendere il cammino e proseguire insieme. Ne consegue che un processo di riconciliazione non può che proiettare l’esistenza dei suoi protagonisti esclusivamente in avanti e verso una prospettiva di futura armonia e pace. Ed è anche solo a questo scopo, cioè con una funzione intrinsecamente sanatoria, che all’occorrenza un processo di riconciliazione può permettersi di guardare anche all’indietro. A volta diventa palese, da questo punto di vista, l’esigenza o la necessità di effettuare una corretta e veritiera lettura della rottura passata, per quanto drammatico o doloroso possa essere. Da una prospettiva analoga, chi intraprende la via della riconciliazione lo fa nella convinzione che essa sia una necessità, ossia si adopera in quanto convinto di guadagnare un bene comune “superiore”. Infatti, come succede per qualsiasi altro bene pregiato, la ricerca della riconciliazione ha un “prezzo” in quanto richiede la disponibilità a compiere un sacrificio, uno sforzo, e anche a rischiare un’eventuale umiliazione qualora l’impresa dovesse avere un esito fallimentare, oppure anche riuscire, ma poi finire per essere interpretata da alcuni come un segno di sconfitta, di resa, di sottomissione o di debolezza. Ed è proprio in questo contesto che è forse più meritevole di essere citato il famoso detto per il quale “ciò che unisce” vale più di “ciò che divide”. Infine, la riconciliazione ha anche le caratteristiche di un dono. Sostanzialmente i modi, i tempi, i luoghi e le circostanze in cui essa avviene in qualche modo esulano sempre dal nostro diretto controllo. Possiamo anche desiderarla intensamente, auspicare di raggiungerla in tempi da noi ritenuti utili o sperare di ottenerla in condizioni per noi “vantaggiose”, ma in fin dei conti la nostra non è altro che una semplice preghiera, perché è l’intimità della persona umana la vera origine dell’autentica riconciliazione. Ora, dal momento che quello della riconciliazione è essenzialmente un sentiero impercorribile in solitario, e data la circostanza che nel cuore altrui non siamo in grado di leggere né di incidere nella mente degli altri la nostra volontà, bisogna intuire o dedurre che la fonte ultima della riconciliazione sia una benefica ed immensa saggezza che parli direttamente all’intimità stessa della persona umana e determini le dimensioni spaziali e temporali all’interno delle quali si svolge la nostra esistenza.
2. Quali sono le condizioni nelle quali, al di là dell’assicurare gli interessi della parti in conflitto, può essere stabilito un processo incentrato su un senso di equità e dignità?
Mi ritornano in mente le molte umili e semplici lezioni apprese nella mia prima “scuola di vita”, la savana africana, con i suoi enormi spazi e lunghissimi tempi, che ricordo ancora con molta nostalgia. Qui, durante una prima infanzia trascorsa giocando e crescendo, come di solito avviene anche nelle altre parti del mondo, ho imparato alcune regole base della vita sociale africana. Inizialmente ho sperimentato l’obbligo consuetudinario di condividere i miei giocattoli con gli altri bambini, e malgrado il fatto che li avessi costruiti io con le mie stesse mani e con non poca fatica, pena la tremenda “sanzione” della solitudine e dell’isolamento sociale. A questa regola primaria ho successivamente aggiunto qualche cosa che era autenticamente mio, e all’epoca senza neanche capirne il perché. Nei giochi competitivi, infatti, di tanto in tanto lasciavo volontariamente e volentieri vincere anche i compagni d’infanzia che per diverse ragioni non sarebbero stati in grado di battermi. Oggi mi rendo conto che sono diventato l’adulto che sono anche grazie a quel preziosissimo allenamento morale. Anzi, probabilmente è stata proprio quella l’inoculazione che la mia povera cultura da campagna africana mi ha voluto anticipare in previsione della drammatica testimonianza di pura violenza: la guerra, che di lì a poco avrebbe mandato in mille frantumi la mia infanzia per sempre. A mio modesto parere la dignità e l’equità possono esistere solo se mi impegno senza condizione alcuna a riconoscere nell’altro una persona come me, un portatore di diritti come me, un essere con sogni ed aspirazioni legittimi proprio come i miei. Solo così l’altro non diventa un nemico da abbattere, un avversario sconfitto da umiliare ulteriormente, l’oggetto della mia vendetta o colui che oggi mi deve ripagare fino all’ultimo centesimo il danno che mi ha recato ieri. Ancora oggi questi sono tra i ricordi più cari che cerco di condividere con i ragazzi che spesso mi ospitano nelle loro scuole: imparare a giocare con gli altri condividendo la gioia di stare insieme e, a volte, anche saper fare un passo indietro o mettersi da parte per lasciar passare o andare avanti chi non ha la mia energia, il mio talento e la mia intelligenza. Imparare a vincere, ma anche ad accettare la sconfitto, specie se ciò può anche aiutare un altro a sentirsi valorizzato e “uno di noi”. Cominciare ad accorgersi che nelle lotte della vita le “vittorie” possono diventare socialmente controproducenti o addirittura trasformarsi in “voglia di vendetta” se accompagnate da un inutile trionfalismo o dal tentativo di umiliare ulteriormente chi ha già perso. Restituire equità e dignità laddove questi valori siano stati intaccati significa cercare, trovare, condividere e stabilire anche il simbolismo giusto per farlo e questo, a sua volta, dipenderà dal contesto specifico di riferimento. Tuttavia, la regola di base rimane immutata: parità di trattamento e un uguale diritto alla partecipazione per tutte le parti in causa proprio partendo dal presupposto che in un conflitto tutti perdono qualcosa di prezioso e, quindi, tutti sono “sconfitti”.
3. Quanto il perdono è essenziale alla dimensione della riconciliazione? Alla radice della Sua cultura politica e/o della Sua fede religiosa quali sono i principi che implicano o escludono il perdono? Quali versi o detti che fanno parte del Suo personale patrimonio spirituale possono, nella sua opinione, avere un significato universale
Se la riconciliazione si può raffigurare come l’atto che ricuce uno strappo che ha separato un unico pezzo di stoffa in due lembi, allora il perdono rappresenta il filo e l’ago che rendono possibile tale saldatura. Il grado di significatività che rinveste il perdono si legge nel fatto che la stoffa riacquista la sua integrità, valore e bellezza originaria solo grazie ad un piccolo, debole e sottile filo! Io sono di cristiano di fede e come tale vivo la riconciliazione attraverso il perdono a livello sacramentale. Ciò significa che in fondo non posso che ritenermi un umile beneficiario di un immenso dono e, perciò, vivere perennemente nella ricerca costante di condividerlo al meglio con il mondo in cui vivo e con gli uomini e le donne del mio tempo. Perdono a riconciliazione, dal punto di vista cristiano, dovrebbero essere il presupposto di una continua conversione all’amore e, soprattutto, alla fede nella sacralità della vita umana. Ne conseguirebbe, a mio umilissimo parere, che per i cristiani non vi sono principi che escludono a priori il perdono, pena la desacralizzazione della vita stessa e il rischio di precipitare nella spirale della vendetta o del circolo vizioso dell’occhio per occhio che, considerata la naturale propensione a sbagliare degli esseri umani, finirebbe prima o poi per rendere ciechi tutti quanti. Nella bibbia, l’insegnamento della parabola/metafora del figliol prodigo (Luca 15, 11-32) non lascia dubbi riguardo al principio secondo cui un padre non può negare al proprio figlio il diritto naturale alla riconciliazione, indifferentemente dall’entità dell’errore che quest’ultimo abbia commesso, specie se lo stesso perdono viene chiesto con umiltà e pentimento. In un secondo passaggio sullo stesso argomento Gesù, parlando con i suoi discepoli, gli detta quasi un imperativo: “Se un tuo fratello pecca, rimproverarlo; ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: mi pento, tu gli perdonerai” (Luca 17, 3-4; ma anche Matteo 18, 21-22).
4. Il perdono richiede qualche forma di pentimento da parte di coloro a cui il perdono viene offerto? Il perdono ha condizioni o è senza condizioni?
Ammesso che la facoltà di concedere il perdono rappresenti una prerogativa personale e soggettiva e quindi non debba essere mai rivendicato o preteso, è altrettanto ragionevole pensare che quando un individuo matura o raggiunge la consapevolezza di aver fatto qualcosa che abbia offeso un’altra persona, allora dovrebbe esso stesso scoprire contemporaneamente anche quell’umiltà necessaria per chiedere perdono, ma prima ancora dell’aspettativa o dell’eventuale certezza di poterlo ottenere. Per essere genuina, una richiesta di perdono dovrebbe essere sincera e onesta. Ciò significa che, più che di un semplice sentimento di pentimento, la richiesta del perdono non potrebbe prescindere da una conversione intima, un impegno a “cambiare strada” e una promessa o giuramento del richiedente a se stesso di non ripetere più la stessa offesa né nei confronti dell’individuo o delle persone a cui chiede perdono né verso altre persone. Da siffatta prospettiva il perdono non potrebbe quindi essere considerato alla stregua di una cosa che corrisponda a queste o a quelle prescrizioni, e tanto meno a delle precise condizioni, ma piuttosto come un momento educativo e pedagogico basato al contempo sull’ammissione e sull’assunzione di responsabilità. In quanto tale il perdono costituisce addirittura un diritto naturale, soprattutto da parte di chi lo richiede, che altro non è che il proseguimento del duplice diritto, a livello individuale e collettivo, di poter sbagliare o poter commettere degli errori senza per questo essere esclusi dal diritto di porvi rimedio attraverso il pentimento e le buone azioni. Ne consegue il ciclo virtuoso della convivenza possibile e sostenibile tra gli esseri umani: siccome anch’io posso sbagliare, e quando lo faccio vorrei poter sempre contare sulla possibilità di chiedere e ricevere comprensione e perdono, allora anch’io sono chiamato a fare la stessa cosa nei confronti degli altri.
Basandosi sulla Sua esperienza nel lavorare con la riconciliazione e con il perdono, quali sono la struttura e le attività che offrirebbe per un consiglio universale sulla riconciliazione?
Poco fa, visitando degli amici in un piccolo paese friulano, mi sono imbattuto in uno slogan ideato per accompagnare un convegno sulla promozione e la diffusione di una cultura dei diritti umani che recitava: “dal dire al fare, senza dimenticare di pensare”. Sono convinto che la vera sfida dei processi di riconciliazione e di perdono nel mondo contemporaneo riguarda, prima di tutto, gli strumenti di riflessione e di educazione che siamo disposti a dedicarci. Quello di oggi è infatti un mondo che offre opportunità e potenziali senza precedenti, sia come capacità tecniche che come risorse umane e, di conseguenza, anche rispetto all’impatto benefico che può essere raffigurato, perseguito e ottenuto nel campo dei rapporti interpersonali ed intercomunitari. Infatti, già molte donne e molti uomini del nostro tempo, o quasi, ci hanno consegnato un preziosissimo lascito in merito al tema del perdono e della riconciliazione. Penso al Mahatma Gandhi, a Martin Luther King, a Madre Teresa di Calcutta, a Nelson Mandela, a Rigoberta Menchu, giusto per citarne alcuni. Nella loro vita e nel loro operare questi nostri fratelli e sorelle non hanno mai preteso di essere soprannaturali e perfetti, ma sappiamo bene che hanno potuto raggiungere traguardi significativi e ammirevoli nella difesa della dignità umana dedicandosi anima e corpo per ricucire gli strappi socio-politici che hanno segnato i contesti in cui hanno vissuto e allo scopo di costruire un avvenire migliore, e non per loro stessi. Oggi questi coraggiosi uomini e donne ci consegnano in eredità la forza e la coerenza delle loro idee, delle loro parole e dei loro gesti e forse quello che ci spetta è solo il compito e il necessario sforzo ulteriore per spingere la nostra umanità verso nuovi traguardi di libertà, di giustizia e di pace. Infatti, è solo ispirandoci a loro che possiamo valorizzare il bene universale che hanno saputo operare. Ne consegue la necessità di educarci e, soprattutto, di educare i nostri giovani all’amore e alla speranza. Possiamo osare, attraverso tale operatività, invogliare e sostenere la nostra umanità contemporanea ad alzare lo sguardo per vedere nuovi, ampi e possibili orizzonti di pace e fratellanza universale. Tuttavia, nel voler immaginare, progettare e governare tale cambiamento migliorativo a livello globale, diventa fondamentale e indispensabile sapersi mettere nell’ottica di un cammino graduale costituito da diverse tappe. A mio modesto avviso non deve venire meno la nostra capacità di rispettare i tempi e le modalità dei diversi popoli del mondo, oltre a riconoscere la sostanziale ricchezza intrinseca delle rispettive eredità culturali. Oggi la vera opportunità di adoperare la riconciliazione e il perdono come collante per una stabile e durevole civiltà di fratellanza tra gli esseri umani dipende dalla stessa genesi culturale di tale approccio. Malgrado la sua indiscutibile bontà e vocazione universale, una civiltà di amore e solidarietà ha bisogno di una necessaria spinta e un protagonismo dal basso e non deve essere mai l’appannaggio quasi esclusivo di un’èlite seppure di ispirazione “universalista”.