Riflessioni sul Perdono, sulla Dignità e sulla Riconciliazione

Enzo Bianchi

Tre riflessioni sintetiche («frasi») su perdono e riconciliazione (cf. richiesta Ara pacis Initiative)

  1. Gesù non era un illuso idealista quando chiedeva il perdono dei nemici, l’amore, la preghiera e la benedizione verso i persecutori (cf. Mt 5,43-44; Lc 6,27-28) ; egli faceva questo ben sapendo che solo se una persona si dimostra capace di perdono, allora lo sarà anche di un amore autentico, perseverante, fedele e affidabile. L’unico modo veramente efficace di trasformare il nemico in amico consiste infatti nel perdonarlo e nell’amarlo incondizionatamente, ossia rispondendo al male con il bene, perché il male non è vinto dal male, ma soltanto dall’amore (cf. Rm 12,21). Perdonare l’altro prima che questi si penta, perdonarlo senza esigere da lui reciprocità è un’operazione quasi impossibile per noi uomini: eppure è ciò che Gesù ha vissuto fino all’estremo, fino a perdonare i suoi crocifissori (cf. Lc 23,34), ed è con questa autorevolezza che ha potuto chiedere a quanti si pongono alla sua sequela di fare altrettanto. Il perdono non è un fallimento, non è una sconfitta, ma è una grande vittoria su se stessi, è un tragitto di umanizzazione di sé e del nemico. Il perdono non è un «lasciar andare» da parte di chi è incosciente del male, né il saggio calcolo di un giusto filantropo: è una scelta consapevole e responsabile con la quale si attesta che l’amore è più forte dell’odio e così si spezza ogni catena di inimicizia e di vendetta. Questo è l’insegnamento di Gesù, dopo il quale – va detto con chiarezza – anche la giustizia di Dio, la giustizia descritta nell’Antico Testamento, acquista un contenuto nuovo. Nella nuova economia cristiana, infatti, il perdono e la riconciliazione non possono mai essere in contraddizione con la giustizia, né vanno considerati una sua attenuazione, ma sono a essa inerenti, immanenti: non c’è giustizia senza perdono!
  2. Ricordo il profetico insegnamento lasciatoci da Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per la XXXV Giornata mondiale della pace, un testo significativamente intitolato: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono». In quell’occasione il papa scriveva: «La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l’ordine infranto, se non coniugando tra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono» (§ 2). Discorso difficile, questo, soprattutto visto dalla parte delle vittime; eppure, se veramente si vuole tendere a una pace duratura non si può pensare alla giustizia in termini antitetici al perdono: è il Vangelo che esige che il principio «perdono» sia immanente nel principio «giustizia», e noi cristiani non possiamo esimerci dal viverlo e dall’annunciarlo…
  3. Giovanni Paolo II si è spinto addirittura fino ad affermare che «solo nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una “politica del perdono”, espressa in atteggiamenti sociali e istituti giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano» (ibid. § 8). Ovvero, non ci può essere un progetto di società futura contrassegnata dalla pace, dalla qualità della convivenza sociale e della solidarietà in vista di una vera communitas, senza immettere il perdono nel concetto e nella prassi della giustizia: il perdono si rende necessario a livello sociale, politico, nei rapporti tra le nazioni, le etnie, i gruppi… Una prassi del perdono comporta a breve termine un’apparente perdita, forse anche una sconfitta, ma in realtà assicura un guadagno a lungo termine. La violenza è l’esatto opposto: opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara sul lungo termine perdite reali e permanenti. Concedere e accettare il perdono è sempre stata opera di pochi, ma oggi può diventare prassi «politica» dei cristiani e, con loro, di tutti gli uomini che cercano vie di senso e desiderano la pace per l’umanità intera.

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